2016 – “Il lavoro è cambiato: si chiama job”, Marisa C., Natalina, Donatella

“Il lavoro è cambiato: si chiama job”, a cura di Marisa C., Natalina, Donatella – 2016

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IL LAVORO E’CAMBIATO SI CHIAMA JOB!
Incontro del 24 febbraio con Donata Canta e Giancarlo Cerruti
di Natalina

Penso sia impossibile confrontare il Sindacato di oggi a quello che ha conosciuto la nostra generazione!!!!!!!!

Negli ultimi anni il Sindacato si è trovato difronte a mutamenti del mondo del lavoro, inimmaginabili a quei tempi. Con la crisi delle grandi fabbriche e la delocalizzazione delle imprese il Sindacato ha perso da parte dei lavoratori la fiducia che riponevano in esso.

Io sono convinta che il Sindacato deve ritornare nei posti di lavoro; deve avere la forza e l’obbligo di avvicinarsi a quel mondo del lavoro lasciato per troppo tempo in balia di “padroni” senza scrupoli togliendo al lavoro ed al lavoratore la dignità che questo ha sempre dato…

Ho trovato interessante l’intervento di Ilaria Armaroli, pubblicato su Linkiesta, che ci ricorda perché è nato il sindacato e indica una strada per la sua rinascita.

Di recente il New York Times, ha pubblicato un’inchiesta sulle condizioni di lavoro in una delle più grandi e competitive aziende al mondo AMAZON. Questi lavoratori subivano controlli assidui sui tempi di lavoro, orari estenuanti e competizione crescente tra colleghi per il conseguimento di obiettivi spesso irraggiungibili.

Nel 2013 in Germania, il sindacato VER.di (terziario) denunciava salari non adeguati al settore e inaugurava una stagione di proteste contro il colosso della vendita al dettaglio. Condotte antisindacale venivano denunciate contemporaneamente anche dal sindacato francese (CGT), da quelle inglese (GMB), mentre in Italia nello stabilimento di Castel San Giovanni, nel piacentino, nasceva l’idea di una pagina FB per far conoscere lo sfruttamento dei lavoratori di questo gigante delle vendite.

Oggi più che mai, mentre in Italia continuano gli attacchi al sindacato, le situazioni dei dipendenti AMAZON servono a rispondere a chi si interroga sull’utilità della rappresentanza e della contrattazione collettiva. E a ricordare perché, nonostante siano in tanti a delegittimarlo, il sindacato deve essere presente sul posto di lavoro.

Amazon è l’emblema di tutte le sfide che le organizzazioni sindacali, figlie della burocratizzazione e della rigidità del ventesimo secolo, si trovano oggi ad affrontare. In un mercato del lavoro mutevole e veloce caratterizzato da rapporti di impiego contingenti.

Questa inchiesta del giornale americano ha fatto conoscere al mondo la verità del lavoro senza rappresentanza e serve a ricordare al sindacato che c’è una possibilità per cambiare direzione ricominciando dal basso, dalla conquista della fiducia sul posto di lavoro.

Un altro esempio importante è stato quello dell’ELECTROLUX dove nel 2010 la direzione aziendale le federazioni sindacali svedesi e la confederazione internazionale dei lavoratori metalmeccanici hanno sancito, attraverso un accordo quadro internazionale, sull’orario di lavoro che concili tempi di vita e di lavoro, il pieno riconoscimento delle libertà sindacali, la condanna del lavoro minorile, ecc.ecc. L’esperienza della multinazionale svedese e di tante altre che dal 1988 a oggi hanno siglato intese collettive internazionali dimostra che importanti traguardi si possono ancora raggiungere con il sindacato e con la contrattazione.

Nell’era della NEW ECONOMY, le relazioni industriali ci insegnano che si può agire diversamente e che l’impresa può assumersi le proprie responsabilità sociali per conquistare quote di mercato senza rinunciare ai diritti e alle libertà dei lavoratori.

Non vi pare che possa nascere un coordinamento internazionale delle forme di lotte locali per arrivare ad una intesa collettiva, per la tutela dei diritti di tutte quelle persone che sono accomunate, pur non conoscendosi, da uno stesso mestiere e da una stessa condizione???????????

Questa potrebbe essere una risposta più che convincente a chi contesta il sindacato, ma si dimentica perché è nato.

Nota: Ilaria Armaroli laureata in scienze Internazionali e Diplomatiche;
apprendista di ADAPT (Scuola di alta formazione, relazioni industriali, con-
trattazione collettiva concertazione, tripartismo e dialogo sociale)
da settembre 2015 dottoranda di ricerca in Formazione della persona e del
mercato del lavoro (Università di Bergamo).

IL LAVORO E’CAMBIATO SI CHIAMA JOB! di MARISA CABONI

Già altre volte abbiamo parlato di lavoro, ma se riprendiamo oggi l’argomento è perché i problemi inerenti appunto il lavoro soprattutto in Italia, sono ancora drammaticamente attuali.
Abbiamo invitato due ospiti esperti che ci aiuteranno a capire meglio cosa sta avvenendo in quella che è una vera propria jungla che è il mercato di lavoro e quali possibili soluzioni.
La nostra Costituzione assegna al lavoro un ruolo centrale perché è attraverso il lavoro che si diventa pienamente partecipi del destino della società.
La Costituzione stabilisce inoltre che del lavoro deve essere sempre riconosciuta anche la sua dignità che riassume i diritti fondamentali della persona. E’ importante quindi il lavoro ma ancora di più lo è il rispetto della persona che lavora.
Sono ormai passati quasi 70 anni dalla promulgazione della Costituzione e nel frattempo la società ha conosciuto grandi trasformazioni come lo sviluppo tecnologico e la globalizzazione che naturalmente hanno coinvolto il lavoro, la sua cultura, la sua organizzazione e il rapporto tra le persone e il lavoro.

Il nostro Paese sta soffrendo più di altri paesi europei per gli effetti del processo di globalizzazione. Innanzitutto per la tipologia produttiva italiana che è considerata “tradizionale” con scarso sviluppo tecnologico e quindi con scarsa competitività internazionale. Da rilevare inoltre che l’Italia è un paese a “crescita zero” con progressivo invecchiamento della popolazione. L’apporto di stranieri immigrati potrebbe costituire quindi uno stimolo allo sviluppo in quanto popolazione tendenzialmente più giovane e più prolifica in grado di apportare nuove energie al nostro paese. Ma le difficoltà sono tante e di varia natura.
La risposta dell’economia italiana alla globalizzazione è stata da un lato la delocalizzazione produttiva specie in settori che non richiedono alla manodopera conoscenze e competenze particolari e dall’altro la sistematica politica di bassi salari.
Nell’ambito di questa politica risulta centrale la tendenza verso la frammentazione dei rapporti di lavoro, perseguita attraverso la flessibilità e la precarizzazione. Forse era inevitabile ma negli anni il precariato è raddoppiato, così la crescita dei contratti “atipici ”ha contribuito ad abbassare ancora il fronte dei salari e delle tutele col risultato di avere lavoratori protetti e lavoratori in balia di agenzie interinali. Altro effetto di tale situazione è quello di avere sviluppato lavori senza qualità (vedi call-center e magazzini della grande distribuzione) in cui il lavoro è un frustrante assoggettamento a ritmi ripetitivi e alienanti.
Con la crisi economica e finanziaria è aumentata la disoccupazione ma la vera emergenza è rappresentata dalla disoccupazione giovanile che in Italia raggiunge il 43% (la media europea è del 22%). Il governo Renzi ha varato nel 2014 il programma UE “Garanzia Giovani” ma ancora non ci sono risultati certi.
Un’altra categoria di giovani intanto, sono due milioni e mezzo, è diventata protagonista di questa fase storica: è la Generazione NEET (Not in Education, Employment or Trading): Giovani tra i 15 e i 29 anni che non studiano e non hanno lavoro e non lo trovano i c.d. “Scoraggiati” Quale futuro?
Abbiamo saputo in questi giorni che è di 100.000 il numero di studiosi ricercatori che hanno lasciato l’Italia e hanno trovato lavoro e soprattutto gratificazioni non solo economiche, all’estero.
Altro capitolo doloroso è la disparità di trattamento sul lavoro delle donne. Faticano a trovare lavoro, sono le prime a essere licenziate, accettano per necessità lavori poco qualificati e sono pagate meno.
Ma non meno drammatica è la situazione di chi a 50 anni si trova senza lavoro o perché delocalizzano o tagliano il personale o fallisce l’azienda e si è troppo giovani per la pensione e troppo vecchi per ricollocarsi, avendo figli ancora a scuola e un mutuo da pagare.
Non si può tralasciare inoltre di parlare di quanto avviene soprattutto in Agricoltura: un vero sfruttamento con manodopera costretta a condizioni a dir poco inumane da parte di caporali. Fenomeno che investe sia regioni del Sud che del Nord, italiani e immigrati e che ha provocato anche alcuni morti.
Un’ultima considerazione da fare è che nell’era del capitale finanziario non è più il lavoro che dà denaro, ma è il denaro che dà denaro e questa è forse la fondamentale ragione della crescente forbice tra pochi ricchi e molti poveri e della scomparsa del ceto medio. Compito della politica è dunque trovare il modo di attenuare questa inaccettabile sperequazione tra finanza e lavoro, ovvero tra il mondo della speculazione e il mondo della produzione restituendo al lavoro qualità e al lavoratore dignità.